Predomina la forma sonorizzata, normale a Firenze e in gen. in tutta l'area tosc. (cfr. Castellani, 
Gramm. stor., p. 139). L'uso dell'agg. è doc. già nel volg. crem. di 
Uguccione da Lodi (inizi Duecento) con il senso propr. di 'acuminato, affilato' (vd. TLIO s.v. 
acuto). È ancor più precoce il ricorso ad 
aguto con valore sost., testimoniato già dal 
Conto navale pisano (prima metà del sec. XII) nell'accezione concreta di 'chiodo' (vd. TLIO s.v. 
aguto; cfr. anche LEI s.v. 
acutus, 1, 588.45; 591.19; qui sono registrate anche alcune occ. dell'agg. sost. in testi mediolat. di metà Trecento). In Dante, l'agg. si declina in un ventaglio semantico ampio, che arriva a comprendere le accezioni estens. e fig. ammesse dall'
acutus lat. e già sperimentate dal corrispettivo volg. (vd. TLL s.v. 
acutus, 1, 463.27; TLIO s.v. 
acuto). Esso si applica infatti ad armi da taglio (cfr. anche 
Rime d. 16.1: «De' tuoi begli occhi un molto acuto strale») e a oggetti appuntiti in gen. (§ 
1), tra i quali è possibile collocare anche la «folgore» di 
Inf. 14.53 e le «scane» delle cagne di 
Inf. 33.35. 
Acuti nella forma sono poi i "corni" guizzanti delle fiamme che avvolgono i consiglieri fraudolenti (§ 
1.1) e persino l'«omero» del diavolo su cui è  caricato un barattiere (§ 
1.2). Con valore fig., l'attributo può qualificare la sovrannaturale potenza della luce paradisiaca, il cui splendore annienta i deboli occhi umani del pellegrino (§ 
2), oppure l'intensità "pungente" di un sentimento e, in partic., di un desiderio (§§ 
3, 
3.1). Per la connessione 
acuto/acume e desiderio in Dante, cfr. soprattutto Pertile, 
«La punta del disio»; per il sentimento ardente che pervade gli accidiosi a 
Purg. 18.106, cfr. quanto detto s.v. 
fervore. Si isola l'accostamento dell'agg. alla sfera percettiva e intellettiva dell'uomo (§§ 
4, 
4.1). Tale uso, certamente non estraneo alla lingua lat. (vd. TLL s.v. 
acutus, 1, 464.58), nei doc. volg. databili entro la prima metà del sec. XIV è testimoniato da casi esigui e per lo più riconducibili a opere volgarizzate (cfr. ancora TLIO s.v. 
acuto e 
Corpus DiVo). Nell'uso dantesco, invece, il rif. di 
acuto agli occhi – intesi ora come organo sensoriale, ora come organo mentale – e alle «potenze» dell'intelletto acquisisce valori ulteriori e profondamente connessi al tema della 
visio intellectualis (cfr. Tommaso, 
Contra Gentiles, III.53.6), nonché all'immagine tradizionale della vista-arma con cui l'uomo affronta la battaglia per il sapere (cfr. Marcozzi, 
La guerra del cammino, pp. 102-103). Infine, come accade per altri membri della stessa famiglia lessicale (vd. soprattutto 
acume e 
aguzzare), l'accostamento di 
acuto alle facoltà sensoriali o razionali umane perde nel tempo potere metaforico e appare oggi scontato e pienamente lessicalizzato (cfr. Fanini, 
Attorno all'acume
 dantesco, i.c.s.).
 
Cfr. quanto detto s.v. 
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