Dal
longob. *
hruf 'crosta, forfora', con riscontri anche nel fr. antico
roife e continuatori in area dialettale settentr. (Nocentini s.v.
roffia; Parodi,
Lingua, p. 283; Viel,
I gallicismi, p. 288). Prima di Dante la voce è att. negli
Stat. sen., 1301-1303 come tecnicismo della conciatura delle pelli nel senso di 'scarto di lavorazione', signif. che trova ulteriore conferma in doc. fior. del secondo Trecento (cfr.
Corpus OVI). Da questo uso primitivo, ben doc. in area tosc., deriva l'accezione dantesca, di origine traslata, variamente interpretata nella trad. ma comunque riconducibile alla nozione di ‘scarto’, ‘residuo’, ‘impurità’. Per gli antichi commentatori la
roffia è un'«oscurità di vapori umidi, spissati e condensi insieme» (
Francesco da Buti ad l.; ma già
Iacomo della Lana: «tenebria e nuvela»). Parte della critica moderna, rifacendosi al fr. antico
roife ('forfora', 'crosta', 'desquamazione della lebbra'), interpreta invece come «lebbra del cielo che spazza il maestrale» (Contini,
Un'idea, pp. 201-203; cfr. inoltre Torraca e Chiavacci Leonardi
ad l.). Per ulteriori ipotesi sull'accezione della
Commedia cfr. Lombardi e Scartazzini-Vandelli
ad l. Si segnala, infine, che nella
Commedia la voce ricorre nella rima, unica in tutto il poema, in -
offia (con
soffia e
paroffia, con la quale forma anche una rima inclusiva).
Autore: Francesca Spinelli.
Data redazione: 13.07.2022.
Data ultima revisione: 13.07.2022.