Deverbale da
pertugiare (vd.). Il vocabolo, in it. antico (in cui è ben diffuso), condivide molti tratti semantici con
fóro e
forame (vd.), ma si distingue da essi per essere sempre riferito a qualcosa di stretto, angusto e talvolta irregolare. Al signif.
1 sono ricondotte tutte quelle occ. in cui il
pertugio costituisce un punto di passaggio o un collegamento da un interno a un esterno. Come accade anche in altre voci semanticamente affini (vd., per es.,
buca), per il signif.
1 rimane difficile distinguere quando il
pertugio indichi uno 'spazio vuoto entro un corpo solido, dotato di aperture' o 'la sola sua apertura utile'. Inoltre, i materiali solidi in cui si sviluppa un
pertugio possono essere vari, e in Dante vale isolare, senza tuttavia creare delle vere e proprie definizioni, quelli che già in it. antico ricorrono con una particolare frequenza, come le mura di un edificio, i cui
pertugi permettono di vedere da parte a parte (
Inf. 33.22; vd. anche
forame e cfr., per es.,
Boccaccio, Decameron, VII, 5, p. 465, in
Corpus OVI), o quelli che possono avere una minima valenza tecnica, come il legno di uno strumento musicale a fiato, i cui
pertugi permettono il passaggio dell'aria (
Par. 20.23). Quest'ultimo uso si rintraccia in it. antico anche per la voce
foro (cfr. TLIO s.v.
fóro 1) e, nel caso dantesco, sebbene i commenti non siano del tutto concordi («foro d'uscita» della canna della zampogna, secondo Chiavacci Leonardi; «imboccatura della stessa», secondo Inglese),
pertugio sembrerebbe alludere con maggior probabilità ai fori d'uscita dell'aria della
sampogna, destinati alla modulazione della melodia principale o ai suoni di bordone (cfr. Monterosso in ED s.v.
sampogna; vd. anche
bordone 2 e
sampogna). Il signif.
1.1, cioè 'cavità nel terreno' (che non permette un passaggio da parte a parte), si origina per estens. dal signif.
1. Visto il contesto d'uso di tale accezione (
Inf. 24.93, bolgia dei ladri e, quindi, dei serpenti), è utile osservare che
pertugio in it. antico è parola utilizzata per indicare le 'cavità (nella terra o nella roccia) in cui si nascondono, si riparano o stanno gli animali', serpenti compresi (per es.,
Bestiario Tesoro volg., cap. 73, p. 328: «Lo cerbio ne vae alo pertuso dove lo serpente dimora», ma cfr.
Corpus OVI). Peculiarità tutta dantesca è utilizzare tale vocabolo con rif. ai dannati inseguiti dai serpenti (e non agli animali) e come ogg. del verbo
sperare, ad indicare dunque, con prob. allusione a una tana, una 'cavità che può offrire rifugio'.
Autore: Cristiano Lorenzi Biondi.
Data redazione: 02.10.2019.
Data ultima revisione: 12.05.2020.