Dal lat.
mola, deverbale di
molere 'macinare' (DELI 2 s.v.). Il sost. è att. in volg. precocemente, a partire già dagli inizi del sec. XIII (es. «en profondo de mar anci fos eu zitaa / com una mola al colo fortemente ligaa...» Uguccione da Lodi,
Libro, p. 617, vv. 497-498; cfr.
Corpus OVI). Nel poema
mola occorre due volte, sempre nell'ultima cantica e sempre in sede rimica. In entrambi i passi il rif. al termine è funzionale a dare piena concretezza al movimento rotatorio dei beati; in partic., a
Par. 12.3, è descritta come una «santa mola» rotante la corona degli spiriti dei sapienti che, nel IV Cielo del Sole, circonda il pellegrino e la sua guida. Così
Francesco da Buti,
ad l.: «girava come fa la mola, cioè la macina del mulino. E questo finge l'autore, per dimostrare quello che è stato detto di sopra, cioè che li beati spiriti fanno moto circulare intorno a Dio: imperò che, da lui incominciando lo loro intelletto a contemplare la sua infinita bontà e discorrendo per tutta la natura, a lui ritornano godendo di lui et in lui rallegrandosi». Il ricorso a tale strumento, che senz'altro arricchisce la serie delle metafore meccaniche impiegate nel poema (vd. per es.
maciulla,
molino,
oriuolo,
rubecchio ecc.), non è tuttavia nuovo alla poesia dantesca: la
mola ispira infatti due similitudini connesse al movimento – in partic. a quello astr. – anche nel
Conv. (es. «conviene che Maria veggia nel principio dell'Ariete [[...]] esso sole gira[r] lo mondo [[...]] come una mola del[la] quale non paia più che mezzo lo corpo suo; e questa veggia venire montando a guisa d'una vite d'un torno...» ivi, 3.5.14). In tale contesto, del resto, il richiamo alla
mola o alla
macina del mulino posa su una trad. ben consolidata nell'ambito della trattatistica scient. mediolat. e volg.: cfr. per es. «et est revolutio orbis sicut revolutio molae» (Alfragano,
Liber de aggregationibus stellarum, VII); «E 'n quello loco li se volgiarà lo cielo d'atorno cum tutte le sue stelle en modo de macina...» (Restoro d'Arezzo,
La composizione del mondo colle sue cascioni, L. I, cap. 23, p. 41).