indiare v.
Nota:Prima att. Il parasintetico, formato a partire da
Dio, è
neoformazione dantesca. Il prefisso
in-, molto più produttivo nella
Commedia (in specie nel
Paradiso) che nelle altre opere, è utilizzato in modo «seriale» (Contini,
Un'idea, p. 200) per formazioni verbali parasintetiche con valore incoativo (cfr. Tollemache in
ED s.v.
parasinteti, p. 491). La definizione qui proposta tiene conto della riflessione dantesca su una serie di questioni teologiche e filosofiche riguardanti in particolar modo la teoria della conoscenza e quella della
visio dei per essentiam (per cui cfr. almeno Ureni,
Parasinteti; Nardi,
Sigieri, pp. 225-228; Id.,
La conoscenza e Ara,
Deificazione). Nel caso specifico di
indiare (vd. anche
inluiare e
inleiare, che a Dio fanno rif.), il verbo designa l'immediata e diretta compenetrazione intellettuale fra l'intelligenza creatrice e la mente creata (qui l'angelo, sostanza esclusivamente intellettuale, cfr.
Conv. 3.13.5) e, insieme, l'assimilazione di quest'ultima alla prima attraverso la contemplazione del volto di Dio («facie ad faciem»
I Cor., 13.12), dal quale «nelle intelligenze [separate] raggia la divina luce» (
Conv. 3.14.4). Tale assimilazione si intende come conformazione dell'intelletto alla divinità così da partecipare della sua intelligenza («lumen gloriae [...] intellectum in quadam deiformitate constituit» Tommaso,
S. T. I, q. 12, a. 6 e «intellectus videntis Deum assimilatur rebus quae videntur in Deo, inquantum unitur essentiae divinae»
ibid. a. 9 ): per cui colui che
più s'india è «quello che riceve più formazione da Dio» (Iacomo della Lana), «[[ille qui]] magis conformat se Deo» (Benvenuto da Imola). Nella contemplazione dell'aspetto di Dio si contemperano quindi la partecipazione della sua divinità e la «beatitudine dello 'ntelletto» (
Conv. 3.13.2). I modi di tale compenetrazione intellettuale sono ben esplicitati altrove nel poema (con rif. all'anima beata): «Luce divina sopra me s'appunta, / penetrando per questa in ch'io m'inventro, / la cui virtù, col mio veder congiunta
, / mi leva sopra me tanto, ch'i' veggio / la somma essenza de la quale è munta. / Quinci vien l'allegrezza ond' io fiammeggio» (
Par. 21.83-87, cfr. anche
Par. 14.40-42). Il neologismo dantesco presuppone inoltre l'idea della graduabilità: ad
indiarsi, nel contesto in questione, sono i Serafini, «che in Dio più l'occhio ha
nno fisso» (
Par. 21.92), occupanti infatti la più alta posizione fra le gerarchie angeliche e rispondenti al più alto grado di ardore di carità: «dice, che intra li Serafini e Dio nulli Angioli altri sono in mezzo, e però cuoprono la faccia e li piedi di Dio sedente, però che tutti gli altri Angeli non possono più perfettamente di costoro apprendere la divina maiestate; e però di tanta maggiore caritade senza dubbio sono illuminati, quan[t]o di più ardente movimento del divino amore sono infiamati» (
Ottimo; e cfr. Tommaso,
Super Sent., lib. 2 d. 9 q. 1 a. 1 ad 6 e Id.,
S. T. I, q. 12 a. 6 e q. 108 a. 5).
Autore: Francesca De Blasi 27.09.2018 (ultima revisione: 28.02.2019).