Dal
lat. mediev. accidia per il classico
acedia, dal
gr. akēdía (LEI s.v.
acedia, 1, 342.17; DELI 2 s.v.); il rafforzamento in
acc- è originato per analogia con altre parole composte col pref.
ad- (DELI 2 s.v.). Il termine è ben att. nella latinità cristiana (MLW s.v.
acedia), dove indica uno dei sette peccati capitali che consiste in uno stato di colpa spirituale per difetto di intelligenza e volontà nell'operare il bene e quindi corrisponde, a livello psichico, a un atteggiamento di indolenza, pigrizia e tristezza. Per approfondimenti sull’evolversi della concezione mediev. di questo vizio, che arriva talora a sparire dal novero dei sette peccati capitali, si rimanda a ED s.v.
accidia e accidiosi; Casagrande, Vecchio,
I sette vizi, pp. 78-94; Del Castello,
Accidia e melanconia; Cremascoli,
'Saligia', pp. 268-273. In ambito volg. il termine fa la sua comparsa in
Brunetto Latini, Tesoretto, che, in accordo con Aristotele, considera tale peccato derivante dall'ira e, con l'espressione «accidia nighittosa» (v. 2684), sottolinea lo stato di indolenza a essa correlato (ma nella trattazione sui vizi capitali del
Tresor il medesimo peccato è definito
mescreance, forse per sottolinearne le implicazioni spirituali; vd. B. Latini, Tresor, 2.131.7). Per le altre numerose att. del sost. in autori precedenti a Dante, che spesso riflettono i dibattiti in corso, cfr.
TLIO e
Corpus DiVo. Il lemma occorre nella
Commedia solo a
Purg. 18.132, allorché, nella quarta cornice, Dante incontra gli accidiosi, costretti a correre in schiere urlando esempi di sollecitudine e di accidia punita per espiare «negligenza e indugio» (v. 107). In questo caso il contrappasso colpisce la pigrizia e l'indolenza delle anime purganti, mentre l'unica occ. dell'agg.
accidioso (vd.), che ricorre nella prima cantica, rimanda a uno stato di tristezza, per cui sembra che Dante abbia scisso le caratteristiche di questo peccato costruendone due raffigurazioni diverse e complementari. A
Inf. 7.123 l'«accidioso fummo» rappresenta infatti un ottenebramento delle facoltà morali (vd.
fummo), per cui i rei di tale colpa, così come furono tristi in vita, sono ora condannati a un'eterna condizione di tristezza e giacciono completamente immersi nella palude stigia insieme agli iracondi, invisibili però agli occhi di Dante in quanto l'unica maniera in cui essi si manifestano è mediante il pullulare dell'acqua in superficie. Tra gli antichi commentatori alcuni riconducono etimologicamente lo stato di tristezza al fiume Stige, che Dante stesso aveva definito «tristo ruscel» a
Inf. 7.107 (vd.
Ottimo, Inf.,
ad l.: «poiché questo pantano hae nome Tristitia [Stige è interpetrato 'tristizia']»; Pietro Alighieri [red. III],
ad l.: «Stygiam paludem, quae tristitia interpretatur»). Si noti, però, che Francesco da Buti riconosce nella tristezza una delle molteplici specificità del vizio dell’accidia (vd.
Francesco da Buti, Inf., 7.115-126,
ad l.: «Ora è da notare che le specie dell'accidia sono XVI; cioè tepidità, mollezza, oziosità, sonnolenzia, indugio, tardità, negligenzia, imperseveranzia, remissione, dissoluzione, incuria, ignavia, indevozione, tristizia, tedio di vita, e desperazione»). E anche Benvenuto, commentando l'occ. di
Purg. 18, fa ancora rif. alla tristezza come prerogativa dell'accidia (Benvenuto da Imola,
ad l.: «accidia tristis mater otii, nutrix libidinis, tardatrix operum, inimica laborum, premit animum, ligat membra, marcescit sorde, improvida, caeca, amica somni, sine ulla laudabili cura; contraria studio, socia pigritiae, praenuntia paupertatis, inutilis, sterilis, mortua dum vivit»).
Autore: Sara Ferrilli.
Data redazione: 09.10.2024.
Data ultima revisione: 23.03.2025.