Dal lat. tardo
villanus (DELI 2 s.v.
villa), è att. come agg. 'che abita in campagna' dalla seconda metà del sec. XII, nel
Ritmo laurenziano, e solo più tardi col corrispettivo uso sost. (cfr. TLIO s.v.
villano). In funzione di sost. ricorre in due contesti infernali a indicare propr. il contadino. Pur essendo chiaro il senso propr., a
Inf. 15.96 la figura del
villan che usa la
marra (vd.), associata all'immagine della ruota della fortuna (v. 95), è stata oggetto di varie interpretazioni. Tra i primi esegeti,
Iacomo della Lana e l'
Ottimo la collegano metaf. all'«appetito sensitivo»;
Boccaccio (con il quale concorda l'
Anonimo fior.) vi legge un'allusione agli avversari politici di Dante, ossia i «Fiesolani, che contro a lui deono adoperare, li quali qui discrive in persona di villani, cioè d'uomini non cittadini, ma di villa» (
Esposizioni,
ad l.). L'esegesi ottocentesca e moderna riconduce il passo a un modo di dire proverbiale, che solo di recente Inglese (ed. e comm.), individua: «al villano la zappa in mano» (Giusti,
Raccolta di proverbi toscani, p. 170), e spiega come «ciascuno faccia il suo mestiere» col conforto di Benvenuto da Imola («omnia faciant officium suum»). Pagliaro rileva invece un rif. a
Conv. 4.11.8, in cui «il contadino senza merito, anzi il peggiore di tutta la contrada, che trova, zappando, un tesoro diventa un termine di confronto e quasi il simbolo della fortuna immeritata» (Id.,
Ulisse, p. 177). L'ipotesi è accolta, tra gli altri, da Malato (
ad l.) e in parte da Brilli,
la Fortuna, pp. 17-23 (vd. anche Bellomo,
ad l.), che fa derivare il
villano dantesco da un
exemplum aristotelico, noto tramite Boezio (Boeth.,
Consol. Phil. V, 1) o la trad. tomistica (es. Tommaso,
Contra Gentiles, II, 41, 8). L'occ. di
Par. 16.5, ripresa dal pron., è usata come appellativo dispregiativo, entro l'invettiva di Cacciaguida contro l'inurbamento della gente venuta dal contado fiorentino. Con valore estens. e neg. (§
1.2), il sost. indica il cittadino di più bassa estrazione, quindi di «non nobile» origine (Bellomo-Carrai,
Purg. 6.126), come chiosa
Francesco da Buti: «ogni uno di vile condizione, come sono quelli della villa» ('non nobile' con valore morale è in
Rime 4.70;
Conv. 4.14.4.,12-14, 4.15.2). Come agg.,
villano assume anche, fin dalle origini, il senso più deteriore di 'privo di cortesia; rozzo', «accezione propria del linguaggio moderno, che esclude quasi del tutto quella di "contadino"» (Bufano in
ED). Nel passo di
Inf. 33.150, «caratterizzato dalla semantica oppositiva tra
cortesia e
villano» (Coluccia,
e cortesia fu lui esser villano, p. 141), il rifiuto di Dante alla preghiera del traditore frate Alberigo di aprirgli gli occhi dalle lacrime congelate è accompagnato dal commento «e cortesia fu lui esser villano», con cui si qualifica come atto di
cortesia (vd.) il trattamento scortese riservato a un essere così spregevole. In opp. ai dettami dell'amore cortese, l'agg. è att. in quanto 'privo di nobiltà d'animo' in
Vn 19.33, 19.65, 31.35; come 'dissoluto' rif. al
diletto (
Rime 30.54) o 'crudele' rif. alla
Morte (
Vn 8.3, 8.5, 23.9).
Autore: Francesca De Cianni.
Data redazione: 20.04.2023.
Data ultima revisione: 31.07.2023.