Dal lat. classico
orare 'pronunciare una formula rituale' e 'invocare, pregare' (DELI 2 s.v.; Nocentini s.v.), passato poi al lat. eccles. con rif. al culto cristiano (cfr. TLL s.v.
oro, -are, 9, 2.1046.42). Il verbo è att. precocemente in it. antico, a partire dalla
Formula di confessione umbra del 1065, col signif. di 'pregare' (cfr.
Corpus OVI).
Orare, esclusivo del poema ma meno frequentemente del popolare
pregare (vd.), ricorre con usi e costrutti propri della latinità e vitali in volgare. Nel §
1, il verbo è impiegato a
Purg. 15.112 nella costruzione indir. 'orare a qno' «a l'alto Sire» (vd. Ageno, in ED,
Appendice, s.v. verbo, p. 52), in uso nel lat. tardo (con dativo cfr. TLL s.v.
oro, -are, 9, 2.1049.67-72; con
ad + accusativo cfr. DMLBS s.v.
orare, § 2c) e comune nel volg. (ad es.
Lib. Antichr., 5, v. 164: «E nu orenmo a Deu»; per altri ess. cfr.
Corpus OVI). Nel senso assol. di 'pregare' (§
1.1), l'occ. di
Par. 31.92 è rif. alla preghiera che Dante rivolge a Beatrice quale entità celeste, ai vv. 79-90, e richiama testualmente il virgiliano «talibus orabat dictis» di
Aen. VI 124 (cfr. Inglese, ed. comm.,
ad l., Tollemache in
ED s.v). Con uso intrans. (§
1.2), la voce dell'imp. compare a
Purg. 13.50 nell'espressione
òra per noi, corrispondente alla formula di invocazione lat. «ora pro nobis» delle
Litaniae sanctorum (cfr. Bellomo,
ad l.; vd.
Poes. an. Ave Maria, 2, v. 70), per esprimere l'intercessione di Maria e dei santi presso Dio in favore degli spiriti penitenti. Si distingue il valore trans. di 'invocare' (§
2), con ogg. diretto «buona
ramogna» (vd.) a
Purg. 11.26 e «grazia» a
Par. 32.147. Per quest'ultimo passo, Inglese, ed. comm.,
ad l., e Malato,
Apparato, p. 730 (preceduti da altri editori, ad es. Chiavacci Leonardi,
ad l.; tra gli antichi Landino: «è necessario orando impetrare grazia da Dio»), intervenendo sulla punteggiatura, interpretano il verbo come gerundio assol. intrans. con valore di compl. di mezzo: «bisogna ottenere, pregando, una grazia». A parte si considera l'occ. di
Inf. 19.114, in cui
orare assume il signif. di 'adorare' (§
3), già att. nel lat. classico e mediev. (cfr. TLL s.v. 9, 2, 1044.70-71; Du Cange s.v.
orare 2) e nell'it. antico (es.
Milione, 60, 31: «orano quello fuoco come dio»;
Corpus OVI), e così inteso dai commentatori antichi (cfr.
Ottimo;
Francesco da Buti,
ad l.). Nelle opere latine il verbo ricorre nel costrutto intrans. 'pregare a qno' in
Mon. 2.3.16 («orantem suppliciter ad Eneam»), ma per lo più trans. con valore perorativo: 'implorare' (
Ep. 5.1;
Ep. 13.1;
Eg. 1.25), 'perorare' in
Mon. 2.6.9 in cit. diretta da Virgilio,
Aen., VI 847-853 («orabunt causas melius»). In
Mon. 2.3.8. ha il senso del lat. classico 'pronunciare'.
. 19.114, in luogo di
si registrano le lez. dal valore corrispondente
(Mart Pr Triv, accolta a testo da Lanza). Secondo Petrocchi (
, pp. 180-181), tali var., seppur ammissibili, vanno intese «come intervento di copisti per distinguere il significato comune di
). La forma con caduta di -
(Eg Ham), non è inclusa nell'ed. critica di Trovato, mentre Inglese, ed. critica, segnala in apparato
con esp. della prima
). La var.
di Ga Lau Lo Po Ricc Tz (e in La con esp. di
iniziale) è lez. generata graficamente
, prob. per eco di
. 8.7, dove
significa 'fare oggetto di culto'.