abborrare v.
Nota:Prima att. Parasintetico da
borra (LEI s.v.
burra, 8, 221.23, ma anche 8, 220.39; cfr. anche TLIO s.v.
borra)
. Il verbo, considerato di prob.
coniazione dantesca (ma in area romanza sono att. formazioni denominali simili: per es. prov.
bourrer, cfr. FEW s.v.
burra), è stato variamente interpretato e non sempre compreso. Per es. nel commentare l’occ. di
Inf. 25.144,
Iacopo della Lana fa derivare il verbo dalla locuz.
a borra «cioè a ciabatta» seguito da
Francesco da Buti «cioè acciabbatta» (forse intendendo un verbo
acciabbatare e non la locuz., stando all'edizione del commento; così anche in Crusca I); quest'ultimo a
Inf. 31.24 interpreta, invece, con 'errare': «cioè addivien che tu erri nello immaginare, per lo stendere la vista più che non può», come già Benvenuto da Imola, che considera i verbi forme di oberro 'io erro' («idest, si stylus oberrat»; lo stesso per
Inf. 31.24 «idest, contingit, quod tu oberras»). Alla chiosa dell’Anonimo fiorentino «ciò è abborracci, non discerni chiaramente la cosa» si allineano molti dei commentatori moderni, anche sulla base del signif. del lat.
burra 'lana grezza', e per estens. 'cosa grezza', da cui l'identificazione con 'abborracciare' (già dei commentatori cinquecenteschi; per altri riscontri cfr. Ragni in ED s.v.
abborrare e Parodi,
Lingua, p. 268). Maggiori perplessità ha destato la forma
aborre di
Par. 26.73 originando due filoni interpretativi. Il primo fa risalire la forma ad
aborrire ‘schivare, evitare per fastidio o per ripugnanza’ e quindi 'rifuggire dal guardare' (dal lat.
abhorrere, LEI, 1, 95.24 e cfr.
ED s.v.), sulla scorta della chiosa di
Francesco da Buti «cioè teme e non può soffrire di tenere l'occhio aperto, anco l'apre e chiude e strefinalo co la mano, infin che s'ausa a la luce». Sull’interpretazione nella lessicografia storica avrà pesato il trattamento del lemma nel
Vocabolario della Crusca (che dalla I impressione tratta il contesto s.v.
aborrire come sinonimo di
abbominare) e in séguito il commento di Niccolò Tommaseo, che sostiene questa spiegazione. Il secondo riconduce la forma al verbo
abborrare ‘intendere confusamente’, sulla scorta della glossa di Iacomo della Lana (ripresa dall’Anonimo fiorentino): «cioè non distingue od avviluppa». Per questa interpretazione Porena (
Il verbo ‘abborrare’), propone di emendare congetturalmente la forma in
abborra (e di intervenire conseguentemente anche sui rimanti
ricorre 71 e
soccorre 75). La forma
abborre può spiegarsi, invece, come metaplasmo di coniugazione di
abborrare, bene att. in it. antico, anche nella
Commedia stessa: per es., sempre in rima, vd.
abbracce di
Inf. 17.93 e
favelle di
Inf. 32.109) (cfr. Manni,
La lingua, p. 103 e n. 8). Quest'ultima ipotesi è stata sostenuta anche da alcuni commentatori moderni (in particolare Bosco Reggio e, più recentemente, Chiavacci Leonardi, Inglese) e viene qui accolta. Una ulteriore ricostruzione etimologica e semantica, alternativa alle precedenti, propone Casagrande (
Parole di Dante: «abborrare», p. 185):
abborrare condividerebbe l’etimo dell’agg. sostantivato
burrae o dell’agg.
burrus, «id est balbus», che Uguccione fa derivare da
balo (Cecchini,
Uguccione, B 9, 3), con rif. al campo semantico dei disturbi linguistici e quindi dell’espressione, da connettere agli effetti dello
stupor. Per un raffronto con l'agg.
reburrus della dittologia «yrsuta et reburra» di
Dve 2.7.2 (su cui Mengaldo in
ED), si veda Viel,
«Quella materia ond’io son fatto scriba», pp. 176-177.
Autore: Veronica Ricotta 14.06.2017 (ultima revisione: 29.04.2019).