Dal
lat. verbum 'parola' (DELI 2 s.v.
verbo), ovvero elemento discreto di un'espressione linguistica (
vox significativa) scritta o orale (
Inf. 25.16, su cui vd.
infra), ma già per la grammatica antica indicava anche la parte variabile del discorso che codifica azione o modo di essere di una persona o cosa (
Par. 18.92, e cfr. anche le occ. in
Conv.). A questi signif. originari si affiancano successivamente le derive semantiche che si devono al lessico tomistico e biblico, per cui il vocabolo prende a ricoprire un ruolo cruciale all'interno del sistema dottrinale su cui si fonda la teologia cristiana. Le possibili accezioni di
verbo sono discusse da San Tommaso in un passo della
Summa di fondamentale importanza (Tommaso,
S. Th., I, q. 34, a. 1), in cui si cerca di dimostrare come nel valore di
vox significativa assunto dall'atto della prolazione rivesta per così dire maggiore peso tematico il determinativo piuttosto che il sostantivo, nel senso che
verbum è in prima istanza un pensiero dotato di senso concepito nell'interno della mente, che può essere eventualmente espresso con la voce («dicitur verbum vox exterior, quia significat interiorem mentis conceptum»): di qui l'uso del termine che si riscontra a
Par. 18.1, dove si fa rif. all'interruzione del discorso di Cacciaguida nel canto precedente e alla beatitudine cagionata dal puro pensiero di cui si diletta intimamente l'anima dell'antenato di Dante (l'
Ottimo, seguito da
Francesco da Buti, avanza due ipotesi interpretative per questo passo, nessuna delle quali efficace: «
del suo verbo, cioè del suo stato, ch'è vedere Idio Padre, Dio Figliolo, Dio Spirito Sancto; o
del suo verbo, cioè del suo sermone, col quale caritativamente avea satisfacto allo autore»; per la seconda vd. anche Benvenuto da Imola e
Chiose falso Boccaccio ad l.). Associato alla mente di Dio, questo valore di
verbum viene a declinarsi come «ratio idealis, per quam Deus omnia condidit» (Tommaso,
S. Th., I, q. 32., a. 1), dunque la suprema facoltà di concepimento - dell'idea e, in seconda istanza, della realtà a essa corrispondente (i due momenti sono tenuti ben distinti da Dante a
Par. 19.40-45, dove verbo riveste questa specifica accezione). Secondo la dottrina cristiana tale facoltà divina, principio di tutte le cose (
Io. 1.1-3) si identifica con il Figlio (Tommaso,
S. Th., I, q. 32., a. 1: «filio appropriatur»), la seconda persona della Trinità che si fece carne (vd.
Par. 23.74; per questo signif. vd.
infra).
Locuz. e fras. L'accezione primigenia di 'parola' si trova in Dante unicamente a
Inf. 25.16 nell'espressione
non parlare verbo, in cui a
parlare è conferito il valore trans. di 'proferire': in quasi tutte le altre occ. del vocabolo, limitate al
Paradiso, prevalgono le accezioni teologico-filosofiche tipiche delle Sacre Scritture (vd.
supra). Fra esse, le locuz.
verbo di Dio (
Par. 7.30) e
verbo divino (
Par. 23.73) identificano la seconda persona della Trinità, il Figlio che si è fatto carne (Gesù Cristo). A fronte della consustanzialità ontologica propria della dottrina cristiana (gli antichi commentatori, fra cui l'
Ottimo e le
Chiose Filippine, tendono a individuare nel
verbo Cristo stesso) non è semplice - o forse tutto sommato non ha senso - rintracciare nella
Commedia una vera e propria divaricazione semantica fra i concetti di 'pensiero di Dio' da una parte e di 'Figlio' dall'altra, per cui di fatto si può dire che non sussistano differenze nel signif. delle locuz. qui in esame e il
verbo di
Par. 19.44. Tuttavia, Petrocchi, Sanguineti e Malato stampano
verbo con la maiuscola solo a
Par. 7.30, distinguendo apparentemente il valore puntuale del vocabolo all'interno delle due locuz.: a
Par. 7.30 con
Verbo di Dio Dante penserebbe al Figlio, dunque a persona dotata di arbitrio («discender piacque»), laddove a
Par. 23.73 si farebbe rif. alla parola divina come a
Par. 19.44, ma il discrimine appare, per le ragioni di cui sopra, quantomeno arbitrario.
Autore: Nicolò Magnani.
Data redazione: 29.04.2024.
Data ultima revisione: 30.09.2024.