Commedia |
mira Par. 14.24; miro Par. 24.36 (:), 28.53, 30.68. |
Latinismo da
mirus (DELI 2 s.v.
miro). Il cultismo, anche in funzione sost., è att. dalla seconda metà del sec. XIII, pressoché esclusivamente in poesia (es. «ella sormonta d'amo / tra le donne a miro» Chiaro Davanzati,
Rime, 30, 43, p. 112 [fior.]; «Lo mal ch'io porto e tiro / ad ogne amante è miro» Anonimo,
Poi ch'è sì doloroso, 12, 82, p. 714 [tosc.]; cfr.
Corpus OVI). Benché l'uso di
miro penetri anche in qualche testo volgarizzato, risulta nettamente prevalente la tendenza a rendere l'agg. lat. con i traducenti 'meraviglioso' o 'mirabile' (es. «Pigmalione perfettamente disegnò per maravigliosa arte una statua di vivorio...» Simintendi,
Metamorfosi d'Ovidio volg., L. X, 247, [tosc.]; lat.: «mira [[...]] arte / sculpsit»; cfr.
Corpus CLaVo). Nel poema l'attributo ricorre quattro volte, tutte nell'ultima cantica, e in abbinamento a sost. altrettanto colti e ricercati, come
gaudio (vd.),
gurge (vd.) o
templo (vd.). Dopo Dante, il latinismo occorre con rilevante frequenza nelle opere boccacciane (es. «ch' a veder parve a tutti cosa mira»
Teseida, L. 8, 114, 4, p. 534; «L'udite voci e i ferventi amori, la mira bellezza e l'angelico suono»
Ameto, cap. 20, p. 731; cfr.
Corpus OVI).
Autore: Barbara Fanini.
Data redazione: 27.05.2021.
Data ultima revisione: 22.07.2021.