Dal comparativo avv. lat.
vivācĭu(s) ‘più rapidamente’ (vd. DEI s.v.
avaccio),
avaccio si spiega fonologicamente come forma con aferesi dissimilativa e successiva inserzione di
a- (cfr. Rohlfs, § 328). La voce, perduto l’originario valore comparativo e spesso usata anche con funzione di agg., è ben att. sin dal XIII sec. e almeno per tutto il XIV sec. in testi soprattutto tosc.
(cfr. TLIO s.v.
avaccio 1,
2 e
Corpus OVI). A
Inf. 10.116 ricorre la locuz. avv.
più avaccio (v. LOCUZ E FRAS.), che gli antichi esegeti (ad es.
Giovanni Boccaccio, Benvenuto da Imola e
Francesco da Buti) collegano per lo più al verbo
pregai, mentre molti commentatori moderni (tra cui Scartazzini-Vandelli, Bosco-Reggio e Chiavacci-Leonardi) accostano al verbo
mi dicesse. Alessandro Vellutello a
Inf. 10.116 evidenzia la fiorentinità dell’avv. («
più avaccio, cioè, più tosto (et è mero vocabol Fiorentino)»), mentre Pietro Bembo nelle sue
Prose (pp. 106-107) segnala
avacciare e
avaccio come voci "basse" dell'antico tosc.
La locuz. avv.
(cfr.
), è ben att. in it. antico (vd. TLIO s.v.
).