Dal lat. tardo
cuculla 'cappuccio' (vd. DELI 2 s.v.
cocolla). Il sost., abbastanza raro nell'it. antico (vd. TLIO s.v.
cocolla), è att. per la prima volta nell'
Epistola di san Girolamo ad Eustochio volgarizzata di Domenico Cavalca, datata al 1308 e di area pis., con il signif. di 'veste', 'manto' (vd.
Corpus OVI). Nella
Commedia, «il medio latinismo che Dante per la prima volta mutua in un volgare illustre» (vd. Viel,
«Quella materia ond’io son fatto scriba», p. 223),
ricorre soltanto nella terza cantica. In partic., a
Par. 22.77, vale 'veste dotata di cappuccio, tipica dell'abbigliamento dei monaci', con rif. partic. agli abiti dei benedettini degeneri, che dovrebbero ricoprire uomini santi e invece «sono come sacchi pieni di farina guasta» (vd. Chiavacci Leonardi,
ad l.): vd. anche
Iacomo della Lana, «cioè l'abito monacale mio volevan vestire santi, mo vesteno malandrini» e Benvenuto da Imola, «idest, habitus et capputia ipsorum». A
Par. 9.78, invece, nell'espressione
fare la coculla, il sost., nella forma semidotta funzionale alla rima, indica ancora la veste monacale, ma con rif. estens. alle ali dei serafini che rivestono come un abito i corpi degli angeli. La forma
coculla ricorre in testi di area tosc. occ. e lucch.; in partic., risulta att. in più luoghi delle
Vite dei Santi Padri ancora di Cavalca (vd.
Corpus OVI).
Autore: Francesca Carnazzi.
Data redazione: 03.05.2021.
Data ultima revisione: 21.07.2025.