Vocabolario Dantesco
baràtro s.m.
Commedia 1 (1 Inf.). [+var.: 1 (1 Inf.)]
Commedia baràtro Inf. 11.69. [+var.: barato Rb Inf. 12.10; baratto Ham Inf. 12.10].
Prima att. Dal lat. barathrum (LEI s.v., 4, 1133.31), a sua volta dal gr. bàrathron. Uguccione riesce a riassumere i signif. con cui il vocabolo fu utilizzato nelle tradizioni classica (per cui cfr. anche TLL s.v. barathrum) e cristiana: «Baratrum est nomen nimie altitudinis et profunditatis [[...]], idest vorago atra [[...]], quia omnia devorat, et dicitur baratrum quandoque infernus quandoque profundissimus locus inferni, [[...]] quandoque fossa, quandoque gurges vertiginosus, quandoque venter» (Cecchini, Uguccione, B 36, 1-3; vd. anche Isidoro, Etimol., XIV.9.5). È indubitabile che Dante, visto il contesto, indichi con baratro i tre cerchi infernali posti sotto il livello della città di Dite di cui Virgilio ha appena parlato (Inf. 11.16-66), cioè il «profondo abisso» rammentato ad inizio canto (Inf. 11.5; vd. abisso), assimilabile al «profundissimus locus inferni» di Uguccione. Tuttavia, dati il discorso diretto in cui è inserito il vocabolo e il deittico questo che gli si riferisce, il poeta sembra voler descrivere anche una struttura geomorfologica che egli vede di fronte a sé e che si configura come una 'cavità ampia e profonda', caratterizzata da un brusco dislivello (l'«alta ripa» di Inf. 11.1), mal superabile (ciò costituisce una marcata differenza rispetto ai precedenti e più agevoli passaggi tra cerchio e cerchio). Boccaccio (con Filippo Villani e l'Anonimo Fiorentino), parlando dei nomi dell'inferno nel suo Accessus, riporta baratro al nome di un recipiente d'uso comune: «chiamasi Baratro dalla forma d'un vaso di giunchi, il quale è ritondo, nella parte superiore ampio, e nella inferiore aguto» (vd. anche TLIO s.v. baratro 2, e soprattutto Folena, Geografia linguistica, pp. 45-47 e Id., Ancora baratro). Per quanto riguarda l'accentazione, oltre alla forma grecizzante di tradizione scolastica baratrón, già nel lat. era ammesso barathrum con accento di penultima (come in Aen., VIII, 245), o di terzultima (come in Aen., III, 421) (cfr. EV s.v. baratro). Petrocchi inserisce a testo baràtro, sebbene Barbi (Per un nuovo commento, pp. 18-19) prendesse il verso così accentato come esempio di rispetto eccessivo dello schema petrarchesco di endecasillabo. Infine, Petrocchi (Introduzione, p. 122 e ad l.) riporta in apparato le var. barattrobalatro e barat(t)o, ritenendo quest'ultima, presente anche in mss. toscani, un errore prodottosi poligeneticamente (per altra ipotesi, vd. Folena, cit.). Le var. baratto e barato, tuttavia, tornano prob. come forme popolari non tosc. di baratro a Inf. 12.10, in luogo di burrato (vd.), e sono caratterizzate da un signif. che sembra riferirsi solo all'«alta ripa» di Inf. 11.1.
Autore: Cristiano Lorenzi Biondi.
Data redazione: 06.11.2019.
Data ultima revisione: 20.12.2019.
1 Cavità naturale, ampia e profonda, che si apre nel terreno con un brusco dislivello e che comprende i cerchi infernali posti al di sotto del livello della città di Dite.
[1] Inf. 11.69: E io: «Maestro, assai chiara procede / la tua ragione, e assai ben distingue / questo baràtro e 'l popol ch'e' possiede...
[ 2 +var. Conformazione rocciosa caratterizzata da un brusco e profondo dislivello. ]
[1] Inf. 12.10: Qual è quella ruina che nel fianco / di qua da Trento l'Adice percosse, / o per tremoto o per sostegno manco, / che da cima del monte, onde si mosse, / al piano è sì la roccia discoscesa, / ch'alcuna via darebbe a chi su fosse: / cotal di quel burrato era la scesa... ||  barato Rb, baratto Ham.