Latinismo, da
sermo (
sermonem) (DELI 2 s.v.
sermone).
Sermo è impiegato da Dante nel primo libro del
De vulg. con il signif. di 'lingua particolare', o più precisamente di 'modo di parlare' rif. alle peculiarità della lingua in uso presso una det. comunità di parlanti (analogamente per la lingua scritta a
De vulg. 2.4.3 sarà rif. al dettato linguistico, allo stile inteso nelle sue specifiche grammaticali piuttosto che poetico-retoriche, aspetto, quest'ultimo, veicolato da
ars nel medesimo passo). In altre opere lat., come
Ep. e
Mon., il termine è impiegato con altre accezioni più prossime a quelle che si ritrovano nel volg. della
Commedia, in partic. 'discorso, enunciato' (cfr.
Ep. 3.4,
Mon. 2.5.6); ancora, nella parafrasi di
Par. 1.5 sgg. che chiude
Ep. 13, Dante usa
sermo per esprimere l'inadeguatezza del linguaggio comune di fronte all'ineffabile, accostandosi implicitamente a
Inf. 28.5 e
Purg. 12.111, mentre in
Mon. 2.10.6, facendo eco a Arist.
Eth. Nic. 10.1 («cum opera persuadentiora sint quam sermones [...], magis persuadet quam si sermone approbaret») anticipa il dualismo di
Par. 19.75 (per cui cfr.
Lc., 24, 19: «in opere et sermone»). È importante sottolineare come tutte le accezioni conferite da Dante alla parola, tanto in lat. quanto in volg., sono att. nella latinità classica, con l'ovvia eccezione di 'predica, discorso sacro' (
Par. 8.147; le
Chiose Ambrosiane intendono il v. «magis ydoneo ad scientiam quam ad regnum», conferendo a
sermo il signif. di 'studio') che si afferma in ambito cristiano medievale (per uno spoglio dei valori di
sermo dall'antichità al Medioevo vd. Rinaldi,
Per una risemantizzazione, pp. 98-100): come nella maggior parte dei casi, l'apparente mancanza di sistematicità nello sfruttamento semantico di det. lessemi da parte di Dante si giustifica con la piena aderenza alla situazione riscontrata nel lat. Per contro, il valore di 'lingua particolare' che si trova in
De vulg. è assente nel poema, per quanto non del tutto escluso dal volg. di Dante (cfr.
Conv. 1.5.12: per le altre declinazioni semantiche rivestite dal nome in
Conv. vd. Rinaldi,
Per una risemantizzazione, pp. 102-108). Vd. anche la forma nominativale
sermo.
Locuz. e fras. Le locuz.
sanza (alcun) sermone e
tenere sermone entrano nell'uso a partire da Dante (la prima si ritrova con buona frequenza a partire da
Tommaso di Giunta, Rime di corrispondenza). A
Inf. 32.67 la proposizione finale «E perché non mi metti in più sermoni» assume in bocca a Camicion de' Pazzi una connotazione polemica ('affinché tu smetta di importunarmi con altre domande').
Autore: Nicolò Magnani.
Data redazione: 15.01.2024.
Data ultima revisione: 23.01.2025.