Da un’alterazione del lat. eccl.
blasphemia (LEI s.v.
*blastemare 6, 213, 8-29). Il termine
bestemmia, in it. antico, indica per lo più una parola o una frase ingiuriosa proferita nei confronti della divinità (cfr. TLIO s.v.
bestemmia; e si vd. anche Uguccione [Cecchini,
Uguccione, B 116 2] che collega etimologicamente
blasphemia a
blatero «stulte et sine causa loqui»).
Locuz. e fras. La locuz.
bestemmia di fatto è att. solo nella
Commedia, dove indica un’ingiuria contro Dio, consistente in un atto sacrilego, «anche se non accompagnato da parole» (Inglese). Con tale interpretazione concorda quasi del tutto la tradizione esegetica antica e moderna, da cui sembra discostarsi Benvenuto da Imola, il quale così commenta il v. 59: «nam qui offendit ecclesiam offendit Deum», per cui
di fatto, con valore di locuz. avv., varrebbe ‘effettivamente’. La distinzione fra
blasphemia «in ore et in corde et in opere» risale alla dottrina tomistica (Tommaso,
S. Th. II 14 1; cfr. anche
S. Th. II 13 1), per cui vd. anche
bestemmiare. Qui si intende l’intera espressione
bestemmia di fatto come locuz. tenendo conto anche dei riscontri offerti dal Brunetto Latini del
Tesoretto: «offesa / di parole e di fatto» (v. 2529) e «tencione / di fatto o di minacce» (v. 2579); e dallo stesso Dante latino: «orma autem Ecclesie nichil aliud est quam vita Cristi, tam in dictis quam in factis comprehensa» (
Mon. 3.15.3).
Autore: Francesca De Blasi.
Data redazione: 24.09.2018.
Data ultima revisione: 24.09.2018.