| Commedia |
tegghia Inf. 29.74, 29.74 (:). |
Dal lat.
tegula (DELI 2 s.v.
teglia), la forma
tegghia ne rappresenta il tipico esito tosc. trecentesco, con [ggj] da -GL- (cfr. Castellani,
Saggi, I, pp. 213-21). Che questa fosse la forma effettivamente usata all'epoca di Dante è testimoniato da diversi testi di tipo documentario di area tosc. e fior., dove il termine è att. fin dall'ultimo ventennio del Duecento per indicare un 'recipiente da cucina dal bordo molto basso' (cfr.
TLIO s.v. teglia). Nella
Commedia esso compare due volte nello stesso v., a
Inf. 29.76, la seconda a costituire una rima "aspra" (unica nel testo) con
stregghia (vd.) e
vegghia (vd.
vegghiare). Prima di Dante, il sost. è impiegato in poesia solo da
Monte Andrea (ed. Contini), che lo usa appunto in rima con
vegghia (ma in senso fig.). Nel contesto dantesco l'asprezza linguistica si accompagna alla violenza dell'immagine: i falsari colpiti dalla scabbia sono ritratti facendo uso del registro comico-realistico e attingendo al lessico umile della vita quotidiana. Dante, infatti, usa la voce con signif. propr. all'interno di una similitudine che paragona due anime nell'atto di sorreggersi a vicenda a due tegami inclinati e appoggiati l'uno all'altro per occupare meno spazio sulla brace. Osservano molti commentatori, ad es. Chiavacci Leonardi,
ad l., che «il paragone culinario sembra alludere all'arte dei peccatori qui raffigurati, che lavoravano con pentole e fornelli».
Autore: Irene Angelini.
Data redazione: 10.12.2024.
Data ultima revisione: 29.11.2025.