Dal lat.
denarius (Nocentini s.v.
denaro), moneta dell’antica Roma, poi scomparsa, e unica moneta circolante durante i regni carolingi (
denier). Il denaro fu l’unità minima del sistema monetario di conto che si diffuse progressivamente in buona parte d’Europa, Toscana compresa. Esso costituì dunque «la principale moneta in Toscana dall’epoca carolingia in poi», ma «Firenze non coniò il proprio denaro [o
denaro picc(i)olo o
fiorino picc(i)olo] prima degli anni ‘50 del Duecento» (Goldthwaite-Mandich,
Studi, p. 13; per altra bibliografia vd.
fiorino,
Nota e
moneta,
Nota). Nella Firenze dei secc. XIII-XIV, la semantica di
denaro oscilla quindi tra il signif. economico e numismatico appena descritto e il signif. più generico (proprio già del lat. classico
denarius) di ‘moneta contante di qualsiasi taglio’. Nella
Commedia il lemma
denaro è presente nei canti dei barattieri, dove, a partire proprio dal signif. più generico (att. anche nel
Fiore), indica il mezzo con cui tali peccatori venivano pagati, arricchendosi illecitamente. Dunque, come già in altri testi di natura non pratica,
denaro si connette a un vero e proprio atto illecito o, come accade anche nel
Conv., generic. all'aspetto morale legato alla moneta e/o allo sviluppo della classe mercantile (cfr. Berisso,
«Secondo il corso del mondo mess'ò 'n rima»; Canettieri,
Il Fiore
e il fiorino; Montefusco,
Banca e poesia e Id.,
La linea Guittone-Monte, in partic. pp. 19-26). Il consonantismo della sillaba finale delle forme di
denaro att. nelle opere dantesche è in linea con ciò che afferma Rohlfs (§ 284) per l'evoluzione dei sost. lat. in
-arium in fior., e il loro vocalismo presenta un'oscillazione tra
-en- e
-an- in protonia. A tal proposito si veda Castellani,
Nuovi testi, pp. 53-57, che annovera il passaggio da
denari a
danari tra i «fatti» e le «tendenze» del fior. del sec. XIII «che la lingua letteraria non conserva, o conserva solo in parte ed incertamente». Per quanto riguarda le forme di
denaro della
Commedia, il testo Petrocchi riflette la varianza di Triv. Alcuni editori, dopo Petrocchi, pubblicano entrambe le forme o solo quella di
Inf. 22.85 con l'apostrofo finale (quindi:
denar' e
danar'), interpretando quest'ultima come plur. (Inglese afferma: «plurale, come suggerisce Eg»). Nella definizione qui proposta, si segue tale interpretazione; nel caso, tuttavia, si intenda come sing., si dovrà ammetterne il valore collettivo, normale già nell'it. antico.
Autore: Cristiano Lorenzi Biondi.
Data redazione: 22.07.2019.
Data ultima revisione: 04.11.2019.