Dal lat.
cultellus, dimin. di
culter 'coltello' (DELI 2 s.v.). Il sost. è att. in volg. molto precocemente, a partire già dalla fine del sec. XII (vd.
TLIO s.v.). In Dante
coltello ricorre più spesso nel
Convivio, nel quale assume, in un caso, il valore metaf. di 'capacità di discernimento': «L'una è che parlare alcuno di se medesimo pare non licito; l'altra è che parlare in esponendo troppo a fondo pare non ragionevole: e lo illicito e 'l non ragionevole lo coltello del mio giudicio purga in questa forma» (ivi, 1.2.2). Ha valore propr. nell'unica occ. del poema: qui sono paragonate al
coltello con cui il cuoco raschia via le squame della
scardova (vd.) le unghie dei dannati per alchimia, costretti a strapparsi spasmodicamente le croste della lebbra dal corpo per il «pizzicor, che non ha più soccorso» (v. 81). Il termine è poi impiegato due volte nel
Fiore: in un caso, con il valore di 'stiletto elegante' che impreziosisce l'abbigliamento («E pettini d'avorio e riz[z]atoi, / Coltelli e paternostri e tessutetti: / Ché questi non son doni strug[g]itoi» ivi, 52.13); nell'altro con quello di 'strumento tagliente usato per cibarsi' nell'espressione
leccare il coltello, cioè 'essere ridotto in stato di estrema povertà' («Or che darà colui che 'l coltel lecca?» ivi, 107.11; vd. TLIO s.v.
coltello, §
1.3). Per tale espressione, cfr. «Que donra qui son cousteau leiche?» (
Roman de la rose, v. 11224).