Il verbo è già att. prima di Dante (vd. TLIO s.v.
digrignare), sia con valore assol. che con valore trans., nell'espressione
digrignare la boccuzza (in
Cecco Angiolieri, ma in realtà testo di paternità discussa, vd. Bruni Bettarini,
Le rime di Meo dei Tolomei e di Muscia da Siena, p. 90). L'espressione
digrignare i denti, ancora diffusa nell'uso moderno, è invece prima att. dantesca e ricorre a
Inf. 21.131. Le tre att. del verbo nella
Commedia si concentrano esclusivamente nei canti 21 e 22 dell'
Inferno, i due canti dedicati alla quinta bolgia, e contribuiscono ad arricchire la mimica e l'espressività dei diavoli: a
Inf. 21, in partic., l'atto di digrignare i denti è una spia della beffa che i diavoli intendono perpetrare ai danni di Dante e Virgilio («ne minaccian duoli», v. 131), a
Inf. 22 è l'espressione facciale feroce di Farfarello che,
stralunando gli occhi («qui, come tutti gli atti dei diavoli, non è veramenete pauroso, ma soltanto grottesco», Chiavacci Leonardi,
Inf. 22.95) si appresta ad avventarsi su Ciampolo di Navarra. Il verbo è univocamente chiosato dai commentatori: ad es. Cristoforo Landino (
Inf. 22.91-93) spiega: «storcere el volto in forma che la boccha s'apra et mostri e denti. Il che significa o dolersi in sè o adirarsi inverso d'altri. O alchuna volta ridere».
Autore: Chiara Murru.
Data redazione: 02.09.2019.
Data ultima revisione: 30.06.2020.