Latinismo da
liquare nella sua forma passiva (
si liqua <
liquatur ‘si scioglie, si stempera’) oppure da
liquere (<
liquet ‘si manifesta, è chiaro’), ma quest’ultima soluzione, che implica anche un metaplasmo di coniug. dalla II alla I, risulta meno diretta sul piano fono-morfologico. Sul piano semantico, invece, le due proposte risultano parimenti accettabili, benché non equivalenti. La prima, che consente di assegnare a
liquare il suo valore propr., dotato di una connotazione più specif. scientifica (per cui vd. anche il corradicale
liquefare), ha senz’altro dalla sua una maggior ricercatezza e forza espressiva: l’amore del vero bene ‘si risolve’ e si trasforma in «benigna voluntade» (v. 1). La seconda proposta è più evidentemente intelligibile – l’amore del vero bene ‘si manifesta’ nella «benigna voluntade» – e, non a caso, si offre come l’unica lettura ammessa dall’esegesi antica fino a tempi relativamente recenti (cfr. ED s.v.
liquare;
DDP,
ad l.; così anche le prime quattro impressioni del
Vocabolario degli Accademici, ma cfr. Crusca (5) s.v.
liquare). Allo stesso modo, per es., il verbo è inteso da Iacomo della Lana («si liqua, çoè sì se mostra in la ‘voluntà benigna’»), Benvenuto da Imola («idest, in qua liquido et clare ostenditur») o
Francesco da Buti («cioè si manifesta: questo è vocabulo grammaticale, che viene a dire quello che detto è»). Prima di Dante,
liquare è att. in un volg. fior. del
Liber de amore et dilectione Dei di Albertano, databile al 1275: «Et certo sì come sole la cera liqua (e) ala t(er)ra i(n)dura»,
Albertano volg., L. III, cap. 37, p. 215.5 (cfr.
Corpus OVI; traduce il lat.: «quia ceram liquefacit»). Nello stesso testo è doc. anche l’uso dell’agg.
liquato («[[
scil. uomini]] dissoluti et liquati», indipendente dall’originale lat.).