Dal lat.
avarus (LEI s.v., 3.2, 2605.16), a sua volta da
avēre 'bramare'. A quest'ultimo è riconducibile anche
avido, non att. in Dante e piuttosto raro nell'it. antico (vd.
TLIO s.v.).
Avaro è invece ben doc. in volg. già a partire dagli inizi del sec. XIII; le occ. ricavabili dai
corpora restituiscono un ventaglio semantico senz'altro più ampio e vario rispetto a quello attuale (vd. ancora
TLIO s.v.), e difficilmente riducibile alla sola opposizione fra 'cupido, bramoso (di)' – signif. oggi non più vitale – e 'restio a spendere, eccessivamente parsimonioso, taccagno'. Come già rilevato per il sost.
avarizia (vd.), l'attributo può dunque identificare, in piena coerenza con il pensiero teologico mediev., chiunque mostri un «appetitus inordinatus divitiarum» (Tommaso,
S. Th., I.2.84.1): dunque sia l'
avarus in capiendo, sia l'
avarus in retinendo (cfr. Benvenuto da Imola, a
Inf. 18.63), sia entrambi. La struttura semantica proposta tiene dunque conto di tale quadro; si isolano tuttavia al §
1.1 le occ. del termine più chiaramente riferibili al vizio capitale e alla colpa scontata nella quinta cornice purgatoriale (cfr. anche quanto detto s.v.
avarizia). Nel poema l'attributo può essere impiegato con valore assol. o con la prep.
di, come accade in
Purg. 19.113 («del tutto» vale 'di tutto': cfr. ED s.v.
avaro); nelle altre opere è doc. anche l'uso sost.: «e in questo errore cade l'avaro maladetto, e non s'acorge che desidera sé sempre desiderare, andando dietro al numero impossibile a giugnere» (
Conv. 3.15.9); «Corre l'avaro, ma più fugge pace: / oh mente cieca, che non può vedere / lo suo folle volere / che 'l numero, ch'ognora a passar bada, / che 'nfinito vaneggia» (
Rime 14.69).
Autore: Barbara Fanini.
Data redazione: 29.09.2021.
Data ultima revisione: 01.11.2021.