Prima att. (
Rime 13.27). Dal lat. tardo
gŭnna, a sua volta prob. dal gallico
gŭnna oppure voce di diffusione balcanica e di origine iranica (DELI 2 s.v.
gonna).
Gonna è «parola rara, att. per la prima volta, contro
gonnella molto più diffusa, proprio nelle
Rime dantesche, in
Tre donne» (Viel,
«Quella materia ond'io son fatto scriba», p. 229). Col signif. di 'indumento di varia lunghezza e fattura', è att. nel
Paradiso, dove ricorre a
Par. 32.141 a indicare una veste (che può essere, in questo contesto, gen. maschile o femminile), in un'espressione propria del parlare quotidiano («come buon sartore che com'elli ha del panno fa la gonna»); con questo signif.
gonna ricorre anche in
Rime 13.27 («Come Amor prima per la rotta gonna / la vide in parte che 'l tacere è bello, / e pietoso e fello / di lei e del dolor fece dimanda»). L'occ. di
Par. 15.101 è invece molto discussa, poiché l'antica vulgata, i commentatori e i copisti seriori recano unanimemente la lezione «donne contigiate» («cioè non aveva donne Fiorenza, che allora portasseno contige», spiega
Francesco da Buti,
ad l.). A partire dalla proposta di Mazzoni Toselli (
Dizionario gallo-italico, p. 590) ha prevalso la lez.
gonne, assunta dagli editori moderni fino a Petrocchi, il quale spiega (
ad l.) che «la terzina enumera vari ornamenti femminili, e interrompere l'elenco con
donne pare incongruo. Per converso è impossibile pensare ad una contorta struttura sintattica che avesse
donne come soggetto e come verbo (invece dell'impersonale)
avean, quale porta qualche codice al v. 100, forse in analogia all'attacco del v. 106 (ma
contigiate è aggettivo)». Le edd. Lanza e Sanguineti mantengono invece la lez.
donne, come anche Inglese, che, sulla base delle chiose del Buti e di norme statutarie trecentesche, interpreta
contigia come 'calza' e non come 'ornamento' (cfr. Inglese,
ad l.; vd. anche
contigiato). Infine, si segnala che Riccardo Tesi (
Un fiorentinismo) propone di inserire a testo la lezione «doghe contigiate». Tesi, riadattando un'ipotesi di Pézard e considerando che
doga in tosc. antico poteva indicare anche 'ciascuna delle strisce di colore diverso tra loro di un tessuto o uno stemma' (a tal proposito, vd.
doga), interpreta il sintagma come un tecnicismo fiorentino del linguaggio della moda, che avrebbe il senso di «pezze di stoffa riccamente lavorate da applicare alle vesti femminili» (Tesi cit., p. 17). Fig. è infine l'uso di
gonna nel passo di
Par. 26.72, dove il sost. ha il signif. di 'tunica del globo oculare' e indica le membrane dell'occhio. Col vivo raggio del suo sguardo, Beatrice fuga dagli occhi di Dante ogni residua impurità (ogni
quisquilia, vd.), facendo sì che egli recuperi la vista: questa progressiva riacquisizione della vista è paragonata a quando, per effetto di una luce intensa, ci si sveglia perché la facoltà visiva corre incontro al raggio luminoso che attraversa le membrane dell'occhio e, improvvisamente desti, non si distingue bene ciò che si vede, finché la
stimativa (la virtù estimativa) non viene in soccorso (cfr. Lippi,
Dante tra Ipocràte e Galieno, p. 120 e pp. 159-160). Nel
Convivio (
Conv. III, IX, 13) questa membrana è chiamata «tunica della pupilla». Per la corrispondenza
tunica / gonna come tecnicismi della scienza visiva cfr. anche la chiosa di
Francesco da Buti: «di gonna in gonna; cioè di tonica in tonica: diceno li Naturali che l'occhio è composto di più sode toniche, come foglie» (cfr.
Corpus TLIO).
Autore: Chiara Murru.
Data redazione: 22.05.2020.
Data ultima revisione: 11.12.2021.