Gallicismo dal fr.
allumer (DEI s.v.
allumare),
allumare ricorre già nella lirica del Duecento col signif. di 'ardere', 'infiammare', specie con rif. al fuoco
amoroso (vd. TLIO s.v.
allumare e Viel,
Gallicismi, pp. 256-257). Nella
Commedia il verbo ricorre esclusivamente nella seconda e nella terza cantica (specie in connessione con la grande tematica della luce, che domina il mondo paradisiaco e ne plasma il lessico, per cui vd.
luce e bibliografia ivi indicata). Ha il signif. di 'rischiarare con la propria luce' (
1) a
Par. 20.1 («colui che tutto 'l mondo alluma» è il sole, che dà luce a tutto l'universo) e, in contesto fig. con rif. a Dio, a
Par. 15.76. Quest'ultima occ. è chiosata da Petrocchi (
ad l.): «perché il sole che vi illuminò e vi riscaldò, è perfettamente uguale nel suo ardore e nel suo sapere»; per questa interpretazione dei vv. 76-77, da cui dipende anche la punteggiatura, cfr. almeno Barbi,
Nuova Filologia, pp. 10 e segg. (seguito da Petrocchi,
ad l.). Il verbo ricorre ancora col signif. di 'rischiarare con la propria luce', ma rif. a un'altra fonte luminosa (
1.1), a
Par. 28.5, nella similitudine di colui che, inaspettatamente, vede d'un tratto la fiamma di un doppio candeliere splendere alle proprie spalle (
se n'alluma retro vale «ne è illuminato alle spalle», spiega Sapegno,
ad l.). In senso fig. è rif. alla grazia divina a
Purg. 24.151 (
1.2). Il verbo assume invece il signif. fig. di 'infiammare' (
2) a
Purg. 21.96: nel discorso di Stazio, l'
Eneide è infatti la «divina fiamma» che infiammò di ardore poetico un numero indefinito di poeti.
Autore: Chiara Murru.
Data redazione: 05.10.2020.
Data ultima revisione: 02.11.2020.