Dal lat.
futurum (DELI 2 s.v.
futuro), part. fut. di
esse (cfr. Cecchini,
Uguccione, S 215, 12). Sia come agg. sia come sost. ha la sua prima att. nel 1260-61 in
Brunetto Latini, Rettorica (cfr. TLIO, s. v.
futuro, §§ 1 e 2). In Dante, l'agg. è per lo più rif. (§
1) a ciò che verrà in seguito o che è prossimo a verificarsi (così anche in
Conv. 4.27.5): in partic., l'occ. di
Par. 17.22 riguarda le angosciose predizioni, più volte espresse in
Inf. e in
Purg. (vd. Inglese,
ad l.), sulla vita terrena di Dante (una volta che sarà tornato al mondo). Il signif.
1.1 allude piuttosto al destino ultraterreno riservato all'anima dopo la morte del corpo: in
Inf. 6.102
vita futura indica la sopravvivenza dopo la morte, con partic. rif. alla condizione dei dannati a seguito del giudizio universale (cfr. Malato,
ad l.; già
Iacomo della Lana,
ad l.: «çoè de quel che serrà doppo lo die del çudixio»). In
Par. 25.68 è rel. alla condizione di beatitudine eterna. Qui Dante traduce la definizione di Pietro Lombardo,
Sent. III.26.1: «Spes est certa exspectatio futurae beatitudinis...»; per cui Inglese (
ad l.) ricorda Tommaso,
S. Th., II.II, 17, 1-2. Il sost.
futuro (§
2) indica il tempo a venire: in
Inf. 10.108, in cui l'assenza di avvenire, mediante l'immagine della chiusura della porta, rimanda alla fine del tempo e quindi alla sussistenza di un perpetuo presente, al momento del giudizio finale (cfr. Inglese,
ad l.; Bellomo,
ad l.); a
Inf. 33.27, in cui si riferisce al cattivo presagio di Ugolino (cfr.
Ottimo,
ad l.: «cioè che mi manifestoe quello ch'era a venire»). Su
futuro si forma il verbo parasintetico
infuturare (vd.). Si segnala infine che in
Purg. 14.67
futuri («danni») ricorre come var. tarda e ben att. (anche in Aldina, Crusca, ed. ’37) in luogo di
dogliosi, per riflesso di
Inf. 13.12.
Autore: Francesca De Cianni.
Data redazione: 01.02.2019.
Data ultima revisione: 08.05.2022.